Spesso c’è molta confusione quando si parla dell’alimentazione dei nostri avi più recenti, immaginandosi una dieta molto salubre e un cibo ancora incontaminato (che può essere vero in parte) rispetto ai nostri tempi. Quando si menziona addirittura il regime alimentare preistorico, il caos regna sovrano. Finalmente, però, una nuova ricerca mette in rassegna tutte le evidenze attuali provenienti da oltre 400 studi già presenti in letteratura che pongano in relazione alcuni aspetti evolutivi ed etnografici con le abitudini alimentari durante tutto il Paleolitico (Pleistocene) fino all’avvento dell’Homo sapiens.
Come recita il titolo molte tracce indicano che l’uomo preistorico si cibasse prevalentemente di altri animali, alimentazione definibile in questo caso come “specialistica”. In particolare, in epoca Paleolitica, erano gli animali erbivori di taglia maggiore a essere il cibo prediletto (elefanti e bisonti), certamente perché sempre presenti (diversamente dalle specie vegetali che, per stagionalità, non si trovavano tutto l’anno) e perché garanzia di decine di migliaia di calorie con una sola cattura, almeno fino all’estinzione della megafauna, avvenuta alla fine e oltre il Pleistocene.
Di seguito alcune delle 25 possibili prove raccolte dai ricercatori:
- È noto che la dimensione cerebrale durante il Pleistocene fosse superiore rispetto al successivo Olocene e ciò può essere dovuto a un cambio di qualità della dieta, in cui comparissero più componenti vegetali che fornivano meno calorie rispetto all’alimentazione precedente.
- Un altro punto interessante è che l’uomo conserva più grasso di altri primati; da un lato l’accumulo di grasso può rallentare la velocità di attacco o fuga, ma dall’altra consente un’alta adattabilità alla carestia che può incorrere tra l’uccisione di una preda e la successiva (poteva certamente trascorrere molto tempo causa fallimenti nelle battute di caccia), grazie a un più facile ingresso in chetosi, cioè la produzione di corpi chetonici nel fegato a partire dal grasso per sostenere il cervello anche in condizioni di digiuno, limitando così la produzione di glucosio dalle proteine.
- Le analisi genomiche degli uomini di Neanderthal e Denisovan hanno scoperto l’esistenza di geni che supportano una dieta ad alto contenuto di grasso (quindi carnivora), la quale assicurava tra l’altro micronutrienti fondamentali per lo sviluppo cerebrale, come vitamina B12, ferro eme, zinco e derivati degli ω-3 e ω-6, questi ultimi tipici oggi di animali acquatici, ma probabilmente reperibili anche negli animali terrestri allo stato brado.
- L’acidità dello stomaco dell’uomo moderno è molto alta (pH < 2), molto di più degli animali onnivori (pH ≈ 3), poiché evidentemente la pressione selettiva ha portato a questo adattamento dispendioso: la carne (consumata cruda fino alla scoperta del fuoco) presentava un forte rischio di patogeni e, se ci si immagina che un animale di grossa taglia potesse sfamare per diversi giorni un intero clan, l’incipiente putrefazione aumentava ancora di più il rischio, perciò il pH così basso permetteva di fare fronte a questo pericolo.
- Un altro aspetto degno di nota riguarda la scarsa sensibilità insulinica che tutti i carnivori presentano fisiologicamente per permettere di conservare il glucosio per quei tessuti che dipendono esclusivamente da esso: questo dettaglio riguarderebbe anche l’uomo, come dimostrano alcuni studi che hanno rilevato geni che indicano maggiore resistenza all’insulina conservati in popolazioni che oggi ancora basano il proprio sostentamento su una dieta animale. Ciò fa pensare che originariamente il consumo di zuccheri e amidi fosse molto ridotto.
- La grandezza del colon è molto inferiore a quella di altri primati e il tenue è invece decisamente più lungo relativamente alle dimensioni corporee, similmente ad altri carnivori. Ciò, infatti, implica che l’estrazione calorica dalle fibre alimentari per mezzo del microbiota, pur avvenendo, si attesta al 10% o meno del fabbisogno calorico e dunque non sia per niente funzionale al soddisfacimento energetico attraverso una dieta solo vegetale, suggerendo che non venisse consumata in epoca primitiva.
- L’apparato dentale del genere Homo erectus è poco sviluppato rispetto ad altri primati e questo è associabile a una bassa durata del processo masticatorio, tipica di una dieta carnea e ad alto contenuto di grasso. L’abilità di utilizzare il fuoco (e cuocere alimenti) si attesta a milioni di anni dopo Homo erectus e dunque non sembra avere avuto un ruolo nella riduzione dello sviluppo dell’apparato masticatorio.
- La dimensione corporea è aumentata fino all’avvento dell’Homo sapiens e tipicamente (ma non sempre) essa è correlata con la dimensione delle proprie prede: il successivo declino della grandezza del corpo può essere dovuta a un cambio di alimentazione, passando a una maggiore presenza di cibo vegetale rispetto all’Homo erectus, per una maggiore agilità, per esempio nella raccolta di frutta.
- Il numero delle cellule adipose è simile, per unità di peso, a quello di altri carnivori.
- L’età dello svezzamento nelle attuali popolazioni di cacciatori-raccoglitori è attorno ai due anni e mezzo, significativamente meno dei circa cinque di altri primati: un’età precoce di svezzamento è tipica degli animali carnivori.
- Un confronto della densità vitaminica (per 100 calorie) tra mammiferi terrestri e piante ha mostrato che, per otto delle dieci vitamine considerate (non vitamina C e E), la carne dei mammiferi (allo stato brado) è più ricca delle piante in questi composti. Se consideriamo fattori come la biodisponibilità e la compresenza di anti-nutrienti nei vegetali, la carne risultava ancora più nutriente: questo può aver guidato i primi ominidi a orientarsi per una dieta carnivora, più vantaggiosa in termini nutrizionali.
- Dalle analisi genomiche di uomini pre-Homo sapiens, i geni per le amilasi salivari (enzimi che scindono l’amido) erano solo due, contro i quindici individuati nelle moderne popolazioni che consumano una dieta ad alto contenuto di amido.
- La prevalenza di carie era scarsissima secondo i ritrovamenti archeologici durante il Paleolitico, ma inizia a diventare alta nei fossili di 15000 anni fa. La quasi assenza di carie induce a pensare a una dieta a basso apporto di carboidrati.
Detto tutto questo, non bisogna comunque dimenticare che l’apporto vegetale al regime alimentare paleolitico arrivava probabilmente attorno al 20-25% sul totale. Infatti, alcuni resti di placche dentali, reperti di attrezzi, analisi di isotopi, confermano il consumo di alimenti amilacei, pur non potendo definire con chiarezza l’esatto contributo quantitativo nella dieta. Nondimeno, il consumo di cibi vegetali aumentò certamente dopo il Pleistocene, conservando comunque delle differenze geografiche nelle evidenze di tale passaggio trofico. Gli autori della rassegna dichiarano espressamente che queste evidenze “ci dicono che gli esseri umani sono stati abbastanza carnivori e carnivori abbastanza a lungo da giustificare adattamenti fisiologici e comportamentali unici per i carnivori”, al di là della reale percentuale di calorie derivate da fonti animali nel loro regime alimentare (comunque non inferiore al 50% e, molto probabilmente sopra il 70%).
Fonte: [“The evolution of the human trophic level during the Pleistocene”, Ben-Dor M. et al., Yearbook of Physical Anthropology, 5 marzo 2021; https://doi.org/10.1002/ajpa.24247]